Sulle gambe

Dedicato ad Arturo Guerreschi, detto il Signor Mino. Per i suoi racconti, per il suo esempio, per l’amicizia che sempre ci legherà.

E mi tiene sulle gambe, come non faceva più da tempo. Mi tiene sulle gambe e il suo respiro è la primavera che viene. Davanti il lago, le anatre, due svassi, un cigno che plana sull’acqua maestoso e arrogante. Gli alberi che mettono fiori, le loro radici felici del sole che riporta Persefone fuori dall’Ade. Il cielo è terso, in una tonalità di blu che non vedevo da tempo. Da quanto non venivo qui, gli dico. Da quando non ci veniamo più insieme, risponde lui. In quell’azzurro passa un aeroplano. Sorride. Sorride sempre quando passa un aereo. Lui li guidava da giovane. Nella seconda guerra mondiale era in aviazione, mi ricorda, strizzandomi l’occhio come per dire: faccio apposta, lo so che la sai questa storia. Lo so che te l’ho raccontata almeno un milione di volte. Ma stavolta no, non te la racconto. E invece sono io che approfittando del salto di uno scoiattolo da un ramo all’altro glielo chiedo. Raccontami quello che è successo dopo gli aeroplani. Raccontami ancora la storia della prigionia.

Lui mi osserva e gli occhi diventano cupi tutto a un tratto. Come quando va via il sole dietro le tende e la stanza precipita nel buio. Sei sicuro? Mi chiede. No, vorrei rispondergli. Io non sono come te. Non sono mai sicuro di niente. Ma non ci crederebbe Si metterebbe a dirmi quanto io tenda a sottovalutarmi. Che l’umiltà è preziosa ma bisogna saper far valere il proprio sogno. Che devo combattere per le cose in cui credo. Ma non ho voglia che si parli di me. Non oggi, non qui, non dopo così tanto tempo. E quindi? Chiedo per spaccare in mille pezzi il silenzio. Allora racconti? E così racconta. L’inizio della storia è sempre quello. Lo so. Lo conosco da tempo. Ma questo inizio mi rassicura, è sempre stato così. Mi tiene saldo sulle gambe di fronte alla tempesta che verrà dopo.

E l’inizio è questo, esce dalla sua bocca come un ricordo che diventa vivo e cammina davanti a noi.

Ci siamo salvati perché ci siamo imposti d’essere umani, sempre e comunque. Nonostante quello che ci accadeva intorno. Ogni mattina la ginnastica, il poco cibo diviso fra tutti nella baracca, il lavoro a testa bassa cercando nel cielo la salvezza, quella felicità che c’era stata strappata dalle pance. Ogni colpo alla terra un sorriso di chi amavamo. Un colpo e l’abbraccio dell’ultima volta. Un colpo ed il bacio. Un colpo e dopo un altro colpo. Fino a sera. Con la speranza chiusa dentro ai pugni mentre tornavamo là dove tornavamo sempre, da cinque mesi ormai.

Qui lui si interrompe. Schiarisce la voce. Era così tanto che non glielo sentivo fare. In mezzo al lago due folaghe si rincorrono. Forse è il loro modo di rincorrere l’amore. E il mio? Qual’è?

Lui continua.

Dividevamo tutto. Il cibo, le sigarette, i libri. E quando i libri finivano dividevamo le storie. Certo io sono qui a raccontarlo solo perché io ero un prigioniero politico e ho avuto culo. Al di là della recinzione c’erano quelli con il triangolo marrone cucito sulla nostra bella divisa a righe. Di là c’erano i Rom e i Sinti. I vagabondi, i ladri da sterminare. Confinavano col triangolo rosa degli omosessuali e dall’altra parte con gli ebrei. La maggioranza nel campo, dalla stella di David d’oro. Oro che si trasformava in fumo. Quel fumo che mi entra nel sangue, ancora adesso.

Lui mi fa scendere dalla gambe. Si allontana e va verso il lago. So che sta piangendo. Ogni volta che racconta questa storia, piange. E ad un certo punto, ma non ora, piangerò anch’io. Lo so già. Lascio che si calmi, non dico nulla. Faccio sempre così. Lascio che la memoria giri il coltello nella piaga. Che i fantasmi gli mangino il cuore. E come se mi avesse sentito, dice: ho bisogno di ricordare, sai?

Lo so. Rispondo io. Lui torna a sedersi. Questa volta di fianco a me. Mi appoggia una mano sulla coscia. Era da così tanto tempo che non sentivo quel calore sul mio corpo. Sto per piangere anch’io ma non è il momento. Così lui continua.

Quel giorno li avevamo visti passare. Erano 13 bambini. Per l’esattezza 8 bambini e 5 bambine. Erano ebrei, e uno di loro era disabile. Dietro a quella processione di silenzi, camminavano due guardie con la faccia pulita come la loro ma con una svastica a rodergli i pensieri, a mettergli pistole fra le mani. Urlavano qualcosa in tedesco. I bambini erano spettri a righe. Lo sguardo perso in chissà quali nebbie. Noi li abbiamo visti passare e Mario ha fatto quello che ha fatto.

E adesso lui ride. Questo non l’aveva mai fatto. Mi bevo questa risata, fino all’ultimo sorso. Il sole si specchia negli occhi di un passerotto che ci guarda, come se ascoltasse.

Non sembra che ci stia ascoltando? Gli dico. Lui annuisce.

Mario era soprannominato Bartali. Per via del suo amore per la bici e per il fatto che anche lui era di Firenze. Mi racconta queste cose come se fosse la prima volta. Io le ascolto come se fosse la prima volta. Lui è bravo a raccontare.

Mario era quello che in caserma raccontava barzellette. Che quando si era messo a fare propaganda contro il regime insieme a me e al Fausto, scriveva degli slogan eccezionali. Mario si alza in piedi e dice una cosa in tedesco. Nessuno capisce ma l’aria diventa immediatamente di ghiaccio. Uno dei due servi del passo dell’oca ci si avvicina e chiede in un italiano inutile: Cosa dire tu? E ride. Anche Mario ride con lui. La faccia pulita del nazista si sporca di serietà immediatamente. La serietà dei carnefici. Alza la pistola. Io rido, tu no. Dice. Mario fa segno con la testa e si alza in piedi. Il ragazzo, perché di un ragazzo si tratta, alza l’arma. Noi siamo soli di fronte alla storia. Si avvicina anche l’altro, un ufficiale. Dice in tedesco che il gioco è durato troppo. L’ho saputo dopo che aveva detto così.

Io so come la storia va a finire ma mi godo questo momento. Mi godo il lago, il cielo, le anatre, i cigni. Anche il passerotto si gode il finale con noi.

Poi è successo. Il campo in un attimo è diventato un formicaio a cui hanno appiccato fuoco. Un rumore a cui non eravamo abituati e urla nuove. Abbiamo sentito passare gli aerei. Non li vedevamo. E poi voci in russo. L’ufficiale aveva sparato, ma preso dalla paura, ha bucato solo la spalla di Mario, non il suo cuore.

Così il ragazzo è scappato. L’ufficiale anche. Mario rideva, col sangue che colava lungo il braccio. Rideva. E anche noi abbiamo riso. Come non avremmo riso mai più in tutta la nostra vita. Solo i bambini stavano fermi. Non avevano capito. Non avevano capito niente in quei loro corpi dismessi. Le ombre non possono ridere. Altre voci. Qualcuno gridava. Sono arrivati! Siamo salvi. E salvi lo eravamo veramente.

Il silenzio lascia aperte tutte le possibilità. Lui mi guarda poi mi abbraccia. Il sole sta per tramontare. Succede così all’improvviso, come ogni cosa della vita. Le tragedie e le gioie dell’improvviso. Io mi godo quell’abbraccio e poi chiedo, sottovoce, come quando ero bambino. Nonno tornerai ancora da me?

Sarò sempre con te, mi risponde lui. E se ne va salutandomi con la mano.

Rimango solo davanti a quel lago, finché la voce di mia madre non mi raggiunge come una pugnalata al cuore. Come uno sparo in una spalla.

Torna a casa, Diego, è ora di cena.

Manca a tutti, sai. Finisce la sua frase accarezzandomi la testa.

Io non rispondo, la seguo. Anche se non ho fame.



Racconto scritto durante gli incontri della FUCINA OKAPI NARRANTE. Collettivo di scrittura INstabilE.


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