110717: di ritorno da Santarcangelo. in treno.




110717: 10.49: E mentre venivo qui e salivo sul treno e mi mettevo seduto in questo caldo su rotaie che mi riporta a casa sono passato da Santarcangelo per dargli un saluto e c’era un signore con una maglietta a righe che mi ha salutato lui per primo, come se fosse il paese stesso. Col suo accento e quegli occhi buoni di primavera. Lo accompagnava un cagnolino color whiskie il muso schiacciato come dall’aria, sembrava. E ancora prima mi passano accanto, nel sottopassaggio asfaltato rosa che imbocca la via Emilia, una coppia con le due figlie e quando passano sento profumo di buono, ed è davvero domenica mattina con questo odore di bagno schiuma e loro che passeggiano. E poi c’è stata la piazza con la fontana, il monumento dei caduti, i due bar dove ci si ritrova e s’intrecciano parole come ghirlande per la felicità. E c’è memoria delle sedie, poltrone, del teatro. E c’è memoria dei discorsi, del tempo, pezzi sparsi di noi ovunque in questi anni di passaggio necessario romagnolo. E prima ancora ho comprato il cassone alle erbette dalle mie amiche. Che la signora si ricorda ancora di me e mentre vado lì incontro Goffredo e alcuni ospiti, presumo, del Premio Scenario. E lui mi saluta con quella sua faccia da Walt Whitman ed il sorriso buono degli anni. Ma prima ancora ho bevuto il tè Gold Nepal al bar, dove anche lì ormai la signora mi riconosce. Perché ho chiesto la lista e loro hanno 29 tè che vengono da ogni parte del mondo e io ci ho messo un po’ a capire quale volevo. E mentre ero là, seduto al bar a godermi il mare nella brezza. Quando ero là, seduto senza volere niente, mi sembrava di stare abbracciato ancora a mia nonna. Anche se lei era parmense e qui siamo in Romagna. E poi mi viene in mente la luna ieri sera. E di come anch’io quando mi va bene, come il protagonista del racconto di Pirandello di cui parlava Paolo Nori l’altra sera, la scopro. E le dico, come con la mia bestiolina celeste, ehi tu luna in ciel dimmi che fai. E lei non mi risponde, quasi mai. Che se lei facesse la stessa domanda a me, nemmeno io saprei cosa dire. E mi viene in mente Mariangela dalla torre civica che ringrazia. Che è quello che dovremmo fare ogni giorno, piuttosto del lamento continuo di quel che non abbiamo. Non facciamo. Dovremmo issarci al punto più alto vestiti di vento e fare quello che dobbiamo. Viverci questi giorni senza trappole, progetti. Alla ricerca di verità, bellezza e giustizia. E mi vengono in mente tutte le facce messe qui nello scrigno della testa. Le vostre facce di questi giorni. Le bocche che hanno parlato, gli occhi che ho conosciuto.


E i 200 bambini allo sferisterio che giocano con Majakovskji, che io lo so che è felice, dovunque egli sia, bravo ragazzo dai pantaloni neri e la maglia gialla che splende, di vedersi questa truppa con la rivoluzione ancora nei passi. Intatta. Senza pensarci, senza la crisi e i ragionamenti. E mi rivedo Marco che muove le mani e sposta i pensieri di tutti nell’aria e da indicazione, compone. Con l’amore di una madre ai bambini. E quando tutti poi si mettono intorno all’albero allora il cielo si apre. Ed è come se fossimo ovunque, noi qui, salvati appena dal diluvio. Salvati dalle parole che eccheggiano sulla polvere che ci addestra all’infinito. E poi penso ai posti che abitano questo di posto. Il Senegal, Stati Uniti, Belgio, l’Italia. E alle parole bambine del poeta. E al coro che ci fa meno soli in queste distanze glaciali da facebook. Alla fatica felice letta sulle facce di Ermanna, Robi, Argno, e tutti gli altri che se lo sono inventato questo paese. In questi giorni. E l’hanno restituito con un vestito nuovo che stasera toglie e mette via come col cambio di stagione, si cambiano i vestiti negli armadi. Eppure le voci il paese le registra. Le tiene strette fra le braccia, io lo so, le porta su per la collina, le avvicina alle pietre dei muri. Lasciano la scia queste nostre vite diverse vissute, quando va bene, fino al si può e poi più in là. Che non c’è limite all’immaginazione. E se sei bravo e ti togli di dosso la giacca logica imposta dall’economia, allora vedi tutto più chiaro. E alcuni li fai artigiani e artisti insieme. Che hanno un lavoro che è centro della pancia, conquista e possibilità al futuro. Li vedi che si portano dietro il loro sogno, come su un carrettino, come dei bambini. E poi, mentre sono qui, ancora che passa il tempo e il caldo e una signora capelli ossigenati, occhiali trasparenti e 100 chili d’amore, mi chiede con l’accento di Cesena: ma non c’è l’aria condizionata, che fuori c’è scritto? E io dico di no e poi vorrei dirle che, a volte, la scrittura non è indice di verità. Ma te ne accorgi subito quando verifichi, quando ti avvicini e respiri. Lo senti se qualcosa è morto o vive ancora. E ancora penso a un’idea di rivoluzione. Alla gabbia, alla consolazione alla gabbia, al tacito consenso all’imposizione. E penso che ci va bene, a volte, che sia così. Che tanto ho il mio giochino: uno, due tre giochini che mi fanno dimenticare l’ubriacatura. E quando siamo a Forlì ho la camicia piena di sudore e penso che meno male che ho preso due acque minerali e un po’ il cervello mi si snebbia. Allora metto giù st’inchiostro e guardo fuori. Passo in rassegna la luce che filtra dal buio ad occhi chiusi e mi dico: “ecco ce l’ho fatta a dire addio.” 


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110702. Baia di Vignola. Dai Lanzini.