La fotografia.


Nella fotografia ci siamo Arsen ed io. Siamo nel nostro letto. In mezzo a noi c’è nostra figlia Iskra. Lei è la scintilla della nostra vita. Ha 7 mesi e guarda dritta nel cellulare che sta scattando la foto con l’autoscatto. Lei guarda lontano, dopo di noi, dove non esistono guerre e confini. Io mi chiamo Olena e sono russa. La mia famiglia è originaria di Serghjev Posad, un paese vicino a Mosca. Sono nata e cresciuta lì. Ha 23 anni ho fatto una scelta. Continuare i miei studi nel ventre marcio della santa madre Russia o andarmene. Ho deciso: me ne sono andata. Il governo russo è un palo nel culo per chi ama la libertà. Io suonavo in un gruppo metal di sole ragazze e due di loro le hanno arrestate, farneticando che con il loro comportamento attentavano alla morale. Non importa se la morale brucia costantemente nei bidoni vuoti della povertà. Mentre i ricchi sono sempre più ricchi, alla faccia di Majakovskij e tutti gli altri poeti. Non mi fraintendete, io amo mamma Russia. Lei sa essere buona e dolce. Ma a un certo punto, ti devi staccare dalle tette della donna che ti ha partorito. Io volevo di più, così sono andata in Ucraina, a Kiev. Mi sono sentita subito a casa ma senza l’oppressione di quell’occhio d’acciaio che annienta le anime dei sognatori. Questa è una frase presa da una delle nostre canzoni. Volevo girare il mondo e ho cominciato dall’occidente a me più vicino. A Kiev non si stava male. Soprattutto dopo che ho incontrato lui, Arsen, qui di fianco a me, nella foto, col suo passaporto ucraino in mano. Ci siamo conosciuti in un bar che faceva metal. Anche a lui piacevano i Guns come a me, i Led Zeppelin e i Greta Van Fleet. E anche certo punkrock, stile Iggy Pop. Ci ha presentati una mia amica, una sera senza stelle. Io l’ho guardato negli occhi e ho visto che c’era dentro qualcosa che si muoveva veloce. Come un piccolo folletto. Era lo stesso folletto che si nasconde da sempre nei miei occhi. Abbiamo ascoltato la band che stava suonando, faceva schifo ma poco importava. Abbiamo bevuto, abbiamo parlato fino alla mattina fino a quando nel freddo del parco Mariinsky ci siamo baciati e subito dopo siamo finiti a casa sua. Non siamo più usciti da lì per tre giorni. Io ho saltato le lezioni di sociologia. Lui si è dato malato nella scuola dove insegnava. Il suo appartamento era un incendio che non dimenticherò mai.

Accadeva 3 anni fa. Il mese dopo vivevo già da lui. Mio padre non approvava ma mio padre stava nel suo appartamento russo, oppresso da una dittatura. Io ero libera in Ucraina, pronta a essere chi volevo.

Ho finito l’università. Non ho fatto il lavoro che avrei voluto, quello no, per quello c’era tempo. Mi bastavano le sue labbra e i nostri discorsi. Volevamo di più delle convenzioni, di più di una famiglia, di un lavoro fisso. Per noi c’erano i video, le parole dei poeti, la musica. Sempre la musica. Lui suonava la chitarra, io cantavo. Scrivevamo pezzi che pubblicavamo in Youtube, una cosa homemade ma comunque una cosa che funzionava. C’erano altri come noi in Russia, in Ucraina, negli altri paesi dell’est. Ci seguivano, commentavano la nostra grande avventura.

Poi sette mesi fa è nata Iskra ma non abbiamo smesso di suonare e cantare. Io me la tenevo sulle ginocchia, fra le braccia e cantavo. Iskra è nata nel suono potente e leggero della mia voce. Nelle corde pizzicate e battute della chitarra di suo padre. Avevamo deciso di non sposarci. Di non essere come gli altri. Fino a una settimana fa.

I segnali erano ovunque di quello che sarebbe successo ma nessuno di noi ci voleva credere. Nel 2014 Arsen aveva perso suo fratello negli scontri con la polizia e ora era una fotografia al collo del mio uomo e da un anno a Kiev si tornava a respirare un’aria strana. Come quando c’è una cappa grigia nel cielo e non si respira. Come se l’aria fosse inquinata. Non ci siamo meravigliati quando lo stronzo del KGB, l’idolo del gas e dell’ipocrisia, ha invaso la terra del mio uomo.

Quando è successo io ho pianto, gli ho chiesto scusa. Lui mi ha accarezzato e mentre Iskra dormiva abbiamo fatto l’amore. Al mattino ho preso la mia decisione. Lo volevo sposare, prima che fosse troppo tardi. Arsen si è messo a ridere, “Pensavo di dover essere io a farti la proposta”, ha detto. Poi ho anche aggiunto. “Ti sposo perché poi vorrei arruolarmi.” Lui ha fatto due occhi così, grandi come il fondo di una bottiglia di Beluga. Non ha detto niente, mi ha solo abbracciato.

Dopo due giorni ci siamo sposati. Io, lui e la nostra bambina. Il giorno dopo avevamo in braccio un fucile al posto del suo fiato caldo. Iskra sta con la madre di Arsen, se l’è portata nella casa che hanno Odessa. Da lì sono pronti a scappare in Moldavia. Saremmo potuti andarcene anche noi ma l’abbiamo fatto per lei. Per i suoi occhi azzurri. Vogliamo restare qui ad aspettare. Vogliamo poter difendere il nostro bar, il parco, il nostro primo bacio, la nostra musica. Per questo ci siamo sposati. Per questo abbiamo fatto questa fotografia. Per dirlo al mondo che non abbiamo confini. Che torneremo a suonare, a cantare ancora che non ci sono guerre, mai, quando vince l’amore.


Racconto scritto durante gli incontri del collettivo INstabile di scrittura FUCINA OKAPI NARRANTE

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